Saint Laurent investe in Italia ed ha come obiettivo raggiungere Gucci

Saint Laurent investe in Italia ed ha come obiettivo raggiungere Gucci

Da una interessante intervista di Francesca Bellettini, presa dal Corriere della sera, qui il LINK

Francesca Bellettini, CEO della maison YSL, in cinque anni ha triplicato i ricavi della società francese del gruppo Kering, di cui fa parte anche il brand di Alessandro Michele e Marco Bizzarri. E adesso alza oltre i 3 miliardi di euro l’obiettivo che si era data. Preoccupazione per i rapporti Italia-Francia ma il nostro impegno — assicura — non cambierà. «Vogliamo aumentare gli investimenti in Italia. Abbiamo già creato due business unit: una in Veneto e l’altra in Toscana»

 

Adesso che l’obiettivo dei 3 miliardi si avvicina, è tempo di spostare l’asticella più in alto. «Quando sono arrivata abbiamo analizzato quale poteva essere il nostro primo pieno potenziale, fissandolo in 3 miliardi di euro. Ma ci sono nel settore aziende molto più grandi e non c’è motivo per cui Saint Laurent non possa andare oltre questa soglia», dice Francesca Bellettini, manager italiana (è nata a Cesena) che dal 2013 è ceo del marchio Saint Laurent. D’altra parte in cinque anni i ricavi sono triplicati passando da meno di 600 milioni a oltre 1,7 miliardi e con un margine operativo del 26,3% (25% nel 2017 e 22% nel 2016), secondo il bilancio di Kering, il gruppo di François-Henri Pinault che controlla Ysl. Bellettini non indica il «secondo pieno potenziale» cui aspira, ma una di queste aziende «molto più grandi» si trova in casa Kering, ed è Gucci arrivata oltre gli 8 miliardi. Una bella sfida.

Qual è la strategia di Saint Laurent?

«Abbiamo definito ciò su cui non si potevano fare compromessi. In primo luogo, il posizionamento e l’immagine del brand e, secondo, il bilanciamento in termini di prodotto, di mercati, di canali distributivi».

Come si traduce nel concreto?

«Nel fatto che partiamo dalla creatività e attorno a questa costruiamo la strategia, non il contrario. È una creatività forte, supportata da tutta l’azienda attraverso la costituzione di team nei quali l’ego va messo in secondo piano e dove si deve far sognare. La caratteristica più importante di ogni azienda che fa moda o lusso deve restare la capacità di emozionare, altrimenti diventiamo commodity».

Quindi nessun problema con Anthony Vaccarello, il designer di Saint Laurent. Ogni tanto c’è qualche rumors.

«Assolutamente no! Ho lavorato bene con tutti i direttori creativi, ma Anthony è il primo che ho potuto scegliere (è arrivato nel 2016, ndr) insieme a François-Henri Pinault, e lui ha accettato di venire. Siamo sullo stesso piano pur nel rispetto dei ruoli, insieme funzioniamo ed è diventato anche un amico. Interpreta perfettamente lo spirito di Saint Laurent nel tempo di oggi. Anche la ristrutturazione dell’abbazia che da dicembre è diventata il nostro headquarter a Parigi, è la dimostrazione delle sue capacità, ne ha curato ogni dettaglio. Per me è una gioia vedere il suo successo».

Quando parla di bilanciamento cosa intende?

«Che bisogna cercare di essere rilevanti in ogni categoria merceologica, di non dipendere troppo da un mercato o da una nazionalità, da un prodotto solo, o magari da un canale. Per questo, oltre alla business unit di abbigliamento, che comprende l’atelier a Parigi e la fabbrica creata da Monsieur Saint Laurent ad Angers, abbiamo realizzato delle business unit nelle calzature, in Veneto, e nelle pelletterie, in Toscana, con l’obiettivo di internalizzare lo sviluppo prodotto. Consente di avere una qualità sempre maggiore e di poterla controllare, offrendo al consumatore il giusto rapporto qualità-prezzo».

Quindi non solo negozi monomarchio per voi?

«No. Il canale wholesale ci dà il primo feedback quando iniziamo una campagna vendite e, se ben gestito e con i partner giusti, consente di misurarti rispetto agli altri. Più ci si chiude e ci si isola e meno si riesce a interpretare quello che succede nel mondo. Questo è vero un po’ per tutto».

I mercati, infatti, si stanno chiudendo. Adesso, poi, Italia e Francia sono anche su fronti opposti…

«Sono orgogliosa di essere italiana e qui a Parigi mi sento a casa. In questo momento l’Europa dovrebbe essere unita invece di alimentare i nazionalismi e le diversità. Anche per Brexit continuo a sperare in un cambiamento, altrimenti di fronte a due macro potenze come Stati Uniti e Cina, l’Europa non riesce a rimanere attrattiva. Tra l’altro, costruire muri in un mondo dove i social media abbattono ogni barriera è del tutto in controtendenza».

Cambierete i vostri investimenti in Italia?

«No, né come Saint Laurent (anzi, abbiamo intenzione di aumentarli) né a livello di gruppo, basta vedere cosa stanno facendo anche Gucci o Bottega Veneta. Ovvio, tutti stiamo guardando cosa sta succedendo in Italia, come negli Stati Uniti o in Cina o nel Regno Unito. È un momento particolare e l’unico modo di fronteggiarlo per un’azienda è assumere i talenti migliori e riuscire a tenerli. Io non posso cambiare la situazione economico-politica, posso solo cercare di affrontarla meglio degli altri».

C’è preoccupazione per la decisione della Cina di spingere i consumi interni…

«Come ceo trovo interessanti, dal punto di vista del business, le politiche cinesi per incentivare il consumo locale, ci sarà un riequilibrio dei flussi. Ciò che sta facendo la Cina, tra l’altro, è molto in linea con la nostra strategia: guardiamo con attenzione il business dei turisti, ma abbiamo sempre puntato sul consumo locale, perché questo ti costringe a essere concreto su ogni mercato e su ogni cosa che fai. A non puntare solo sul breve periodo».

Tanti manager italiani, come lei, sono alla guida di gruppi stranieri. In Italia non ci sono possibilità?

«In Italia ci sono molti stranieri che hanno avuto successo… Quanto alla moda, la differenza è che in Francia è considerata, prima di tutto, un’arte e, poi, tra marchi si compete ma, quando c’è bisogno, ci si presenta come sistema-Francia. Non è un caso che i grossi gruppi del lusso si siano creati qui, anche se poi al loro interno ci sono molti brand italiani».

Parlare di lusso nei giorni dei gilet gialli non è un contrasto?

«Penso che ci sia stato un tema di scarsa comunicazione, che è un tema fondamentale: puoi fare i migliori cambiamenti del mondo ma devi farli comprendere. Penso che quanto sta accadendo sia dovuto anche a una certa lontananza che si è creata tra chi è al potere e chi percepisce solo i sacrifici immediati. Spetta a chi guida condurre, dare la visione di medio lungo periodo».

Saint Laurent guarda a una donna libera. Ma una pubblicità di due anni fa aveva creato scandalo con un’immagine di donna sottomessa. Foto scattate da una donna in un’azienda guidata da una donna.

«Non abbiamo fatto quella campagna con intento di provocazione e peraltro era uscita alcuni mesi prima delle proteste. Ma era nei chioschi di Parigi nel giorno della festa nazionale della donna e questo ci ha fatto pensare a come le campagne pubblicitarie possono essere interpretate in maniera diversa a seconda del momento e del luogo».

Per le donne c’è un ritorno indietro?

«Oggi le donne hanno molte più possibilità che nel passato, ma le si vuole incasellare secondo degli stereotipi. Io per esempio faccio un po’ fatica a sentirmi rappresentata anche da chi pensa di parlare a nome di tutte noi. Ritengo che ogni persona debba essere libera di fare ciò che vuole, di essere in carriera o di non esserlo, di dedicarsi a se stessa, di vestirsi con abiti da uomo, di essere sexy senza essere giudicata. A me importa che ci siano pari opportunità. Se con il mio esempio posso far capire a qualche ragazza che si può diventare ceo senza bisogno di essere una extraterrestre sono contenta. Vorrei trasmettere questo concetto di normalità».

Nelle aziende del lusso ci sono sempre più culture internazionali, come farle convivere?

«Amo creare osmosi, il nostro presidente Europa è un americano, il presidente Asia un italiano, la presidente del South Asia una francese… La diversità di culture e di età crea fertilità, non credo nei team monogenerazionali, monogender o monoculturali. È ovvio che devi aiutare le persone a capire che le differenze culturali esistono, e a comprenderle e rispettarle. E non parliamo solo di Stati Uniti o Giappone, ma anche di Italia, Francia, Inghilterra. Sono differenze che partono da come siamo cresciuti, dal sistema scolastico e di educazione di ogni Paese, dalla sua storia».

Ha ricevuto la legione d’onore.

«Un grandissimo orgoglio e un po’ di responsabilità. Lo considero il riconoscimento di ciò che è stato fatto ma anche un punto di partenza. E sono felice di averlo ricevuto per aver contribuito al successo di Kering, un gruppo per il quale valori come la gender equality, l’integrazione, la sostenibilità non sono solo slogan. La base perché tutto questo sia possibile, però, è essere un’azienda sana. Senza profitti la crescita che non è solida».

 

Intervista presa dal Corriere della Sera del 20 Gennaio 2020 qui il link

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